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A LULLABYE ON MY SHOULDER di Federica Nightingale

EMILY DICKINSON

mercoledì 20 luglio 2016

Terracqua di Mirella Crapanzano - Una nota di lettura









Ci si incammina assaporando il profumo del mare. Oltre le spiagge, il sentore del sale sugli orti e le case. Le sterne cantano attraversando con un volo radente il rollio delle onde e il loro frastuono. Così incomincia il viaggio attraverso “Terracqua”, luogo multiforme a cui il Poeta appartiene e di cui nutre la propria memoria. Vi sono sposalizi avvenuti sulla schiuma di un onda e anemoni sui fondali marini a raccontare un amore
(i fiori per la sposa giacciono/ in fondo distese brulicanti di anemoni/fanno una corolla nuziale),
l’avvicendarsi ciclico del giorno e della notte sotto cieli neri e venti sopiti, il silenzio della natura in un’isola di primigenia bellezza
(il vento tace sull’isola/ come un presagio/l’alta marea tra i seni/ il nero stellato intorno/a fior d’acqua lucciole ignare costeggiano/le coste).
E il ricordo che brucia come lava di vulcano, lo stesso ricoperto di terra nera che aleggia nell’aria greve. Con una scrittura intensa ed elegante, Mirella Crapanzano ci conduce nel suo Eden personale, nel suo centro emozionale, nella sua radice di acqua, fuoco e terra di Sicilia dove l’autrice nasce. Nella mente i suoni liquidi del mare, le impalpabili luci dell’alba, i tramonti trafitti di rossi accesi, le notti nere senza luna, le risacche che sempre tornano: così è il mondo descritto dai versi armoniosi di questa autrice siciliana, nata ad Agrigento; un mondo percorso a piedi scalzi e con la salsedine sulla pelle
(un colore ti segue nella pienezza/delle ore/reclama la presenza di chi/cammina a piedi scalzi/e vede il mare/come qualcosa che gli somiglia),
in simbiosi con l’ambiente isolano che ospita il Poeta nel suo percorso esistenziale e lo rende colmo di un forte senso di appartenenza
(ho respirato a lungo sott’acqua/come un pesce/ una stella marina/un’alga/ed ero felice).
E’ viscere e cuore, echi d’Africa e fioriture di mandorli questa raccolta di poesie, un vorticoso avvicendarsi di colori, profumi e immagini nitide, tanto da poterle quasi toccare
(ero terra e nuvole a vista d’occhio/corrente ascensionale d’acqua/una vertigine intagliata sulla pelle).
La casa accoglie il verde dei prati e il rombo del mare: dalle sue finestre si vedono i ciliegi in fiore scuotere l’aria di profumi e il mare quando “s’arriccia e imbianca”. E le stagioni scorrono negli occhi di bambina e poi di donna, s’accendono le voci delle madri e dei padri, delle tradizioni mai perdute
(ho colorato i frutti di martorana/cucinato i biscotti/i pupiddi di zuccaru/ ca mi cercanu l’occhi/bacche mature speziate per la festa/nei giorni dei morti/vedi/ci sono bancarelle/di calia/ simenza e ciuri)
della terra e del suo grembo che porta l’amore e i suoi frutti
(in quel tempo mirabile/il punto dove si annidano i colori/crescono gli aranci)
Scorrono i mesi, le stagioni si avvicendano raccontando storie, eludendo i drammi dell’individuo che sòlo talvolta langue nel sentirsi tale; e poi la perdita di chi si ama che lascia “il vuoto sul divano” fino al giungere della passione, e della sorpresa al tocco di una mano, del profumo del desiderio (l’odore è quello della spremitura/dopo la pioggia .)
Fuori da una stanza in ombra (e come sere/ le finestre/hanno il bianco dei gelsomini) il sole cocente e il profumo di zagare e gelsomini, dentro le mura il dissolversi dei corpi; fino al tempo in cui scende la neve, che con la sua fragilità è metafora della vita e della sua inconsistente ma luminosa meraviglia. Finito il viaggio si ricomincia dall’acqua, e poi la terra, e il fuoco, e ancora il mare, in un moto circolare di eterno ritorno; perché gli elementi e le anime si appartengono, costituiscono uno spazio segreto tra ciò che è chiaro e ciò che è oscuro, tra cultura e natura, tra spirito e corpo, tra Dio e gli Uomini.

il senso che il divino oscilla
tra campi di stelle e umani
dagli occhi trasparenti all’invisibile


Federica Galetto


martedì 26 gennaio 2016

lunedì 11 gennaio 2016

Il pettirosso


Un ramo oscillava nel vuoto tra la finestra e l’aria di vetro. In giardino le matasse di neve si rincorrevano in tondo, coprendo le aiuole, i vasi, il prato. Silenzio. Un passero cantava, un altro beccava il mangime dalla mangiatoia colma di fiocchi d’avena, uvette, frutta fresca, noci, arachidi e nocciole, semi di girasole e mais. Quanta crudeltà nelle ombre dell’inverno parevano lamentare gli uccelli; eppure, ricamando eleganti percorsi aerei, giungevano fin sul mio davanzale come signorine pronte a rifarsi il belletto, così trepidanti e gioiosi, spinti dalla vitalità contagiosa che il freddo dona, ammiccando al mio essere imperfetto dietro il vetro. Di certo non conoscevano i miei pensieri, anche se talvolta pareva il contrario, e se io annuivo allora muovevano il capino verso destra; se invece scuotevo la testa iniziavano a ruotarlo prima a destra e poi a sinistra, puntando gli occhietti rotondi verso di me. Molte volte un pettirosso (sarà stato sempre lo stesso? A me pareva di si ma non ne ero sicura) dal petto rosso e gonfio si intrufolava nella calca della mangiatoia a caccia di semi di girasole di cui era visibilmente ghiotto. Un giorno si fermò sul davanzale e, fissandomi con insistenza, immobile come una statua di sale, mi indusse la tentazione di aprire la finestra per prenderlo fra le mani. Non mi era consentito aprire la finestra, dunque le tentazioni erano due; dalla prima, se avessi ceduto, avrei guadagnato un rimprovero, dalla seconda un ulteriore rimprovero e una punizione che sarebbe durata un lungo periodo di tempo (calcolando il tempo residuo non avrei penato troppo, riflettei). Mi passai la mano sulla testa e sentendo sulle dita il loro pizzicore pensai che i capelli mi stavano ricrescendo. Questo fatto mi diede una sorta di gioia solida e duratura, un soffio di caldo tepore che mi pervase benevolmente e mi convinse. Credetti addirittura di essere felice. Aprii la finestra lentamente, certa fino all’ultimo che l’uccellino sarebbe volato via spaventato; ma quando i vetri ormai spalancati iniziarono a riflettere la neve del giardino e i rami spogli dell’albero, il pettirosso non si mosse e si lasciò prendere. Una volta nella mia mano adagiò la testolina sul mio pollice, tutto tremante. Richiusi la finestra e andai a letto mentre l’infermiera appoggiata allo stipite della porta della mia stanza, le braccia conserte, sorrideva guardandomi. E non mi fu dato alcun rimprovero. Meno male, dissi io fra me e me. In quel freddo giorno di gennaio, il pettirosso rimase accanto a me. E quando io lasciai il corpo anch’esso volò via, aprendomi la strada. Attraversò il vetro e io con lui, seguendolo in cielo.
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